UNA ALIENATA E ALIENANTE

CONCEZIONE DELL' IO

 

Tutta la nostra educazione è volta alla "formazione" e introiezione di una certa concezione dell'Io, alla quale veniamo spinti ad identificarci, e alla quale abitualmente ci si rivolge.

L'Io verso cui veniamo indirizzati - e che finiremo per percepire come ovvio e naturale, perché apprezzato - è, in realtà, una finzione, e avrà importanti conseguenze nella nostra esistenza.

Il genere di Io, il modo in cui ci percepiamo, ci presentiamo al mondo, è tutto incentrato sugli aspetti di noi su cui esercitiamo un sicuro controllo.

È la dimensione della volontà, della padronanza di sé.

Ma siamo veramente sicuri di essere esattamente quella "cosa" lì ?

Un bambino non ha certamente quella concezione di sé, il suo orizzonte esperenziale ed esistenziale è straordinariamente più ampio.

Naturalmente fino a che non scatta il condizionamento (perché di questo si tratta !) operato dalla famiglia, dalla scuola, dalla società, e seguendo un "modello" comune.

Quel "modello" è a senso unico, definisce, ritaglia, modella, accoglie ed esclude, consente e impedisce.

In questo "modello" è compreso tutto ciò che è previsto e su cui si può intervenire con la volontà.

Ma siamo solo quello ?

Questo trionfo della volontà esclude tutto ciò che è in contraddizione con il "modello" stesso, ossia tutto ciò che definiremmo "inconscio", e che pure accade in noi.

Il "trionfo" è sintetizzato in maniera esemplare nella frase di Freud:  "Dove c'è l'Es ci sarà l'Io".

Ma quella pretesa di controllo globale è una prigione e una finzione.

Eppure in noi accadono cose che non dipendono dall'Io, che sfuggono al suo controllo.

Quante volte percepiamo in noi emozioni che non vorremmo, che non ci piacciono, che ci fanno stare male o ci sorprendono ?!

Sono dei "guasti", delle crepe nel granitico Io ?

Vanno riportate sotto controllo, domate, cacciate, medicalizzate ?

E se fossero semplicemente un frammento di ciò che autenticamente siamo ?

E se fossero giunte a rivelarci qualcosa che si agita in noi ?

E se fossimo qualcosa di più e di diverso da ciò che ci siamo abituati a considerare "noi stessi" ?

E se fossero venute a segnalarci che abbiamo smarrito la nostra autentica strada ?

Forse dovremo convincerci a spostare i confini di ciò che abbiamo creduto il nostro Io, e anche della maniera di "inquadrarci" !

Forse, in quella immagine di ciò che siamo, dovremmo prevedere aspetti "fuori controllo", senza temere catastrofi.

Forse in quella dilatazione è la nostra completezza e la presenza di "qualcos'altro" potrebbe arricchirci, portarci energie, intuizioni, capacità, talenti.

Forse dovremmo smetterla di essere come ci vogliono, e di credere di doverne rendere conto agli altri. Capire che è solo un modello e non la "verità ", la vera "realtà".

E non ci sono solo cose "in negativo": anche una irruzione di gioia imprevista e "immotivata" ci sembra inaccettabile e quasi "sospetta"...

Siamo poi così sicuri che ci si debba dare necessariamente una definizione di noi stessi ?

Ci serve veramente ?  A cosa ci serve ?  Per sapere "chi siamo" ?

Non ci stiamo fregando, impacchettando con le nostre stesse mani ?

Un bambino ha interesse a definirsi o si percepisce come un mondo aperto, da guardare e vivere intensamente momento per momento ?

Il bambino ha uno sguardo "oceanico", mentre noi diventiamo sempre più una pozza d'acqua stagnante, che ha reciso i ponti con la vastità del mare.

E senza più apporti e sotto il calore del sole, la pozza rischia l'evaporazione...

Affrettiamoci ad aprire nuovi canali...

 

P.S.

Forse si potrebbe obiettare che l'Io e in verità esattamente quello, proprio quello che la società vuole e propone.  Bene.

Ma allora non è sicuramente quello che esaurisce la nostra identità più vera...

 

Luciano Galassi

(5 novembre 2013)