La mia lettura della Pietà di Michelangelo

 

Premessa

 

La presente riflessione ha preso l'avvio dalla visione di diverse immagini in bianco e nero della Pietà di Michelangelo, realizzate dal fotografo Robert Hupka nel 1964, durante l'esposizione internazionale di New York.

Si tratta di immagini di grande suggestione e di forte impatto, abissalmente differenti da quelle che già conoscevo.

La visione della Pietà, che ebbi occasione di ammirare nel 1975, mi toccò profondamente.

 

Antecedenti storici e caratterizzazioni della Pietà


La rappresentazione della Pietà sembra aver avuto origine nell'Europa centrale, nel corso del Trecento, ed era definita con il nome di Vesperbild, il cui significato è "immagine del tramonto" o "del vespro".

Si trattava di piccole sculture in legno dipinto, in gesso o terracotta, vicine forse alla devozione popolare, e rappresentavano la Madonna seduta, con in grembo il corpo del figlio Gesù, morto.

Nell'iconografia nordica, la Vergine era rappresentata anziana e straziata dal dolore.

 

Questo tipo di scultura si diffuse anche in Italia, dove si conservano ancora numerosi esemplari.

L'origine di tale rappresentazione sembrerebbe derivare da un testo di Simeone Metafraste che, nel decimo secolo, raccontava di come la Vergine avesse tenuto il figlio morto sulle ginocchia, rammentandosi di quando lo aveva cullato da bambino. La rappresentazione della Pietà, così intesa, non trova riscontro nei racconti dei Vangeli.

 

Una prima considerazione nella osservazione della Pietà, è una certa "innaturalezza" che riguarda la composizione.

Chi terrebbe, infatti, in quella maniera, il corpo morto di una persona cara ?

È qualcosa che è anche poco praticabile, dato il peso del corpo senza vita, e richiederebbe sicuramente l'ausilio di altre persone.

Inoltre, nella realtà, non se ne comprenderebbe la ragione.

Dunque occorre abbandonare il riferimento ad una postura reale e di vedervi l'aspetto "simbolico", che ha, evidentemente, l'intento di veicolare dei contenuti capaci di raggiungere il cuore e l'immaginazione della gente.

Qui si tratta dello strazio di una madre che ha dovuto assistere alla morte violenta e ingiusta del figlio.

Così quel corpo senza vita (e spesso rappresentato in uno stato di rigidità) appoggiato sul grembo della madre, è la rappresentazione della piena accoglienza, della compenetrazione del dolore, che viene profondamente ed intimamente vissuto senza alcuna riserva.

E quell'essere "in grembo" si rifà al tempo della gravidanza, quando madre e figlio vivono in simbiosi, costituiscono un'unità, che solo il parto spezzerà, ma non ne cancellerà l'impronta.

Diceva una canzone di De André che "si è madri per sempre", e quell'essere "in grembo" è l'equivalente della disponibilità totale del proprio essere, quale luogo e possibilità di vita.

Dunque, nella Pietà, è confermata quella piena accoglienza, che è perciò "viscerale", e che trova, attraverso la postura fisica, la sua rappresentazione più diretta.

Ed è proprio "lì' ", in quella impronta "viscerale", che il figlio può essere pianto, è "lì" che trovano "casa" e accoglienza il dolore e la disperazione.

 

Ma il tema dello strazio della madre, non appartiene, come vedremo, alla Pietà di Michelangelo, che adotta solo l'aspetto formale delle precedenti rappresentazioni.

 

La mia lettura


Forse non possiamo sapere che cosa Michelangelo intendesse comunicare, o quali siano state le sue fonti ispiratrici, ma possiamo cogliere che cosa la sua opera ci comunica, che cosa fa vivere in noi.

È chiaro che non possiamo prescindere dal rimando alle narrazioni dei Vangeli, ma ciò non toglie che possiamo applicare alla Pietà il nostro sguardo, il nostro spirito indagatore.

La Pietà appare quasi come un “geroglifico”, un messaggio condensato e misterioso, da esplicitare.

C'è una sensazione d'insieme che ci raggiunge, e altre sensazioni scaturiscono dai particolari.

Direi che la prima sensazione è quasi sconvolgente, inquietante.

Michelangelo ci presenta qualcosa che va al di là delle nostre aspettative, di ciò che "dovrebbe esserci", secondo la comune esperienza.

Non ci raggiunge lo strazio, il dolore inconsolabile, presenti in opere di altri autori con lo stesso soggetto.

Non è la rappresentazione di una "sconfitta".

La Pietà potrebbe essere vista come la rappresentazione di una dignità, di una compostezza, quasi "irreali".

È certamente anche questo, ma ci porterebbe soltanto verso una muta rassegnazione, non verso un vivo fermento.

Non credo che Michelangelo abbia voluto proporre soltanto una possibile risposta, "ideale", ad un dolore straziante.

 

Qui, lo scempio crudele, del corpo e della vita di un figlio, apre ad altri orizzonti, ad una diversa visione

Michelangelo approda a qualcosa di differente dal dolore e dalla rassegnazione.

La scultura emana come un senso di distanza, quasi esistesse un confine invalicabile, una barriera tra noi e ciò che ha rappresentato.

C’è una intoccabilità”, che suscita reverenza.

Qualcosa di inviolabile, misterioso e sacro. Qualcosa consegnato all’eternità..

E ciò che non ci si aspetta, è difficile da vedere.

Ma forse ci raggiunge ugualmente.

C'è una sorta di "imperturbabilità", che si direbbe "non essere di questo mondo", e neppure della sensibilità spicciola e comune.

E non si tratta neppure (in riferimento all'atteggiamento, alla postura e al viso di Maria) della stupida incoscienza di chi non si rende conto ed assume atteggiamenti "stonati", inopportuni.

Qui si direbbe che la "lucidità" di Maria, e la presenza a sé stessa, siano totali.

Ed è solo questo a consentire un salto di qualità impressionante.

Quanto appartiene a “Maria”, quanto ai Vangeli e alla teologia, e quanto a Michelangelo ?

La Pietà di Michelangelo sembra distruggere tutto ciò che conosciamo rispetto alla morte e al dolore.

C'è una "riappropriazione" di ciò che occhi prevenuti non vedono.

Michelangelo approda "al di là della morte", in uno spazio in cui c'è una piena riconquista di ciò che i più credono perduto irrimediabilmente.

Il figlio, che Maria accoglie nel suo grembo, la morte non può ghermirlo.

Il Cristo e Maria si pongono al di là di ogni divisione e separazione, anche di quelle che la morte sembra portare, mostrandone l'illusorietà.

Madre e figlio sembrano tornati una sola cosa, un’unità ora divenuta inseparabile, un’unità inscindibile di senso.

Michelangelo ci rivela qualcosa che l'esperienza "normale" non mostra, e lo fissa nella pietra.

 

Solo una percezione limpidamente sentita e profonda, può aver consentito a Michelangelo di realizzare la sua Pietà. Non si può fingere qualcosa di così autentico e vero.

Di fronte ad una visione di così raffinata forza e intensità, si viene colti quasi da un "mancamento".

Cadono le certezze, si viene "svuotati", ma ci si rende anche conto che Michelangelo ha colto nel segno, e proprio attraverso qualcosa che dentro di noi risponde.

Alla commozione si accompagna un sentimento di infinita tenerezza, che offusca la ragione e la sua pretesa di sovranità.

Quella di Michelangelo potrebbe apparire solamente una "provocazione", oppure una fantasiosa e bella immagine idealizzata.

Ma è poi così ?

 

La sua è una rappresentazione che incute reverenza, rispetto e quasi un intimo " tremore".

È come un diapason, una corda tesa al massimo della tensione.

Un senso di "stupefazione", che soggioga.

Michelangelo fa calare in mezzo a noi qualcosa che sembra appartenere ad una dimensione sconosciuta.

Ciò che la vita e la ferocia degli uomini hanno potuto ghermire, ora è "intoccabile".

Si è arrestati sulla soglia di qualcosa di numinoso e sacrale, che sembra impossibile poter profanare.

Michelangelo sembra averci condotto verso un limite estremo e senza ritorno, un punto di incontro tra la vita come la conosciamo e qualcosa di assolutamente imprevedibile.

Qualcosa che ci riguarda personalmente, che ci rivela qualcosa di noi.

Siamo condotti per mano verso una soglia, che sta solo a noi varcare, con tremore.

Appena un attimo più in là, è una tenerezza infinita a sorgere, come avessimo incontrato una delle cose più preziose dell'esistenza, forse la nostra stessa più intima "nudità".

Come non provare un vivo desiderio di accarezzare, di "consolare" quel corpo oramai straziato ?

Come non provare la tentazione di essere parte di ciò che la scultura sta "celebrando", come non rendergli onore ?

Varcare la soglia è partecipare ad una vera e propria catarsi.

Michelangelo ci attrae come un vortice, che ci folgora, che ci proietta verso una dimensione di straordinaria sacralità, a cui non siamo avvezzi.

Ci toglie ogni maschera, ogni schermo, ogni superficialità.

Nel punto estremo, tra la vita e la morte, sorge una consapevolezza nuova, verso la quale Michelangelo ci conduce, ci trascina irresistibilmente.

Parla direttamente alla nostra anima, come si fosse impossessato di un codice sconosciuto o perduto.

"Maria" può così diventare il grembo accogliente e fecondo di ogni vita, una “Madre universale”, dove ogni carne è la sua carne, dove non ci sono distinzioni di genere, dove il dolore di un corpo straziato fa vibrare di commozione l'intero universo, dove ogni vita è infinitamente preziosa.

Michelangelo sembra volerci donare occhi nuovi, un nuovo sguardo, una nuova percezione dell'esistenza, e non solo nella morte.

Una percezione che può trasformarci radicalmente.

L'abbandono del corpo senza vita del Cristo deposto dalla croce, dove si è consumato il suo crudele ed insensato supplizio, trova corrispondenza in quello vigile di sua madre.

Maria è "distante", eppure non potrebbe essere più vicina a noi.

E non si tratta di un evento privato.

Il suo silenzio, la sua illuminata compostezza, ci invadono inesorabilmente e diventano una ferita incancellabile dentro di noi.

Più che un atto di accusa, il suo è un seme di tormento.

Come è stato possibile questo atto folle ?

È tutta in questa miseria insensata la nostra umanità ?

Sono domande che sgorgano da un silenzio che squarcia il nostro torpore, se, ancora una volta, non facciamo finta di non vedere.

 

La Maria di Michelangelo non sembra interessata a "mostrare" il figlio tolto dalla croce, sebbene lo custodisca in grembo.

Non intende fare opera di "edificazione", "denunciare" direttamente il misfatto compiuto e tutta la sofferenza che ne è derivata.

Non "chiede" neppure compassione, né mostra il suo dolore.

I suoi occhi sono abbassati, chiusi. Il suo sguardo è rivolto altrove, "oltre" tutto ciò.

Sul volto di Maria il dolore, il pianto, la disperazione si sono eclissati.

Non c’è neppure traccia di rancore, e anche il desiderio di vendetta o di giustizia è assente.

E’ apparso, invece, qualcosa di straordinariamente diverso e sconosciuto, che sembra quasi impossibile e che ci interroga, ci attanaglia, ci scuote nelle profondità, ci toglie il fiato e la parola.

Lo sguardo di Maria sembra essersi ritirato in un luogo interiore, profondo, inaccessibile e inviolabile.

Il viso della Madonna sembrerebbe spiazzarci, tanto sembra, a prima vista, lontano da quello che ci saremmo aspettati, in quel contesto.

Ci confonde, ci “costringe” ad interrogarci, a cercare altri “registri”.

Sul suo viso si direbbe decantato ogni dolore, mentre affiora una nuova consapevolezza, che non è affatto rassegnazione.

Forse è una dimensione che secoli di assuefazione alla violenza dell'uomo sull'uomo, alla prevalenza della forza e del potere cieco, hanno eclissato tragicamente, imbarbarendoci.

Forse è proprio ciò che non vogliamo o non sappiamo più vedere.

 

Quel "luogo", quella dimensione in cui Maria si è ritirata, mentre sostiene nel grembo il corpo ancora caldo del Cristo, parrebbe essere la sola "risposta", veramente aurorale, all'insensatezza della violenza e alla perdita della sacralità della vita.

Michelangelo si avvale di una situazione "potente", ed emblematica della follia o della insensatezza umane:   l'uccisione crudele di un innocente.

È la perdita della "carezza" dell'uomo verso la vita, verso lo stupore dell'essere vivi, è la perdita di ogni rispetto, che forse il Cristo sintetizza in quel: "Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno".

Michelangelo ci pone davanti al "misfatto" più grande: la perdita del senso di sacralità della vita.

Valicato drammaticamente il limite della violenza, del sangue sparso, siamo come cacciati dal paradiso dell'anima e della dignità, e trascinati in uno spazio di infinita miseria, che noi stessi abbiamo edificato.

Michelangelo sembrerebbe invitarci al ravvedimento, alla "conversione".

Forse non tutto è perduto, giacché non la realtà dell'esistenza è mutata, ma soltanto la nostra visione.

 

La Pietà, è forse la maniera di Michelangelo di denunciare ciò che l'umanità sembra aver perduto. Qualcosa a cui, assurdamente, incomprensibilmente, abbiamo finito per adattarci, sulla scia di crimini, a volte anche "santificati".

Michelangelo ci propone il suo "antidoto", la via per un indispensabile ravvedimento, se vogliamo che la vita abbia il senso e la dignità che le appartengono.

Ciascuno di noi è sollecitato alla "conversione", a guardare con occhi nuovi al miracolo della vita, ad accompagnarsi in quello spazio, a prima vista estraneo e incomprensibile, in cui la Maria di Michelangelo si è raccolta e da cui, con misurato distacco, sembra chiamarci.

La sua anima naviga in un orizzonte sconosciuto o dimenticato.

 

C’è un particolare della statua che mi colpisce e mi interroga.

Mentre il braccio destro e la mano della Madonna sostengono il corpo del Cristo, il braccio sinistro è misterioso, perché legato solamente ad una pura espressività di sentimento.

 

Il braccio sinistro della Madonna e, soprattutto, la sua mano aperta, sono forse l'aspetto più misterioso della intera statua. È un gesto a-funzionale, quasi "insensato", che non ha una funzione diretta, ma ha il sapore di un dialogo tutto interiore.

Sembra quasi appartenere a qualcosa di "separato", di distaccato, che riguarda solo lei.

Quella mano vuole certamente dirci qualcos'altro.

È un braccio sospeso, piegato, e sembra quasi aprirsi verso un'altra dimensione, non facilmente sondabile.

Non sono certamente un braccio, una mano rassegnati.

Se dovessi immaginare un momento di continuità, di qualcosa che è aperto al nuovo, all'ignoto, lo vedrei rappresentato qui. È un gesto che si apre all' "oltre". Ha il sapore di un'ancora, che va al di là della tragedia che la tocca, che forse la conduce "al di là".

È una mano aperta all'istante che accade, quasi un'antenna sul presente.

Forse è una mano che cerca, che non si rassegna alla tragedia, che vuole "toccare" qualcosa di radicalmente differente.

Forse “per quel braccio” – il braccio del cuore – passa l’infinito senso di vuoto e di solitudine che attraversano Maria, quasi una “inconsolabilità”, che resta “sospesa”, aperta, come una ferita nell’anima.

Forse è anche il segnale di un rifiuto di un ruolo che la vede quasi priva di una identità personale, per essere solamente la donna del "sì".

Qui Maria è compiutamente protagonista, e si trova a "navigare" da sola e sembra farlo "a modo suo" (che è magari il "modo" di Michelangelo).

Michelangelo "libera" Maria da una iconografia scontata e chiusa in se stessa, e la restituisce alla sua personale umanità, a "reazioni" sue, fuori dagli schemi consueti e consunti: quelli che la vedono, prevalentemente, come "Mater dolorosa".

Nella statua di Michelangelo, non c'è niente che riprenda o ricalchi l'iconografia precedente.

Michelangelo la vuole "oltre" ciò, non si accontenta della tradizione, non la chiude nella prigione di un ruolo scontato e, in fondo, "complementare", quello che appartiene alla predicazione e alla devozione popolare.

Michelangelo, oltre al marmo, prende a martellate anche tutti i nostri pregiudizi e lo fa con grande anticipo sui tempi moderni.

Dunque, un gesto "stonato", rispetto a tutto ciò, un gesto di non adesione allo schema.

Non un gesto plateale e "forte" (come, del resto, la compostezza dell'insieme), ma un "segnale" che si apre sull'interiorità, espresso con una grande finezza di dettagli.

Del resto, in quanto scultore, Michelangelo poteva avvalersi solamente della postura dei corpi, di un'espressione, di un gesto, sicuramente non sempre facili da "tradurre".

Sembrerebbe quasi un "cucchiaio", la mano aperta, in cui Maria sta come attendendo che si materializzi qualcosa, che possa condurla "oltre". Che le indichi la via, nel cuore di così tanto strazio, senza rassegnazione alla trama che sembra esserle stata assegnata, anche a posteriori.

Maria cerca la sua "risposta", la sua libertà e le attende come una manifestazione che giunga dall'ignoto, dal vuoto. Che la illumini e la "salvi".

 

Oltre questo, credo sia per noi impossibile andare.

Forse anche per Maria c'è la necessità di fermarci proprio sulla soglia della sua anima, senza credere che ci appartenga per intero, che tutto debba esserci noto, senza zone intime e private.

Se fossimo alla ricerca di un inno alla libertà, all'autonomia, alla dignità della donna, credo possiamo trovarlo proprio qui.

 

Alla fine, è proprio la sua figura a giganteggiare nella scultura di Michelangelo, a comunicarci il messaggio più segreto e prezioso.

È lei l'erede e la messaggera della sacralità dell'esistenza, è lei che l'incomprensibile strazio che è stato compiuto, forse conduce verso una nuova e pregnante consapevolezza.

 

E come non ricordare il nostro incredulo stupore, la nostra annichilita consapevolezza, il peso sul cuore, di fronte ai cancelli, senza più anima alcuna, di Auschwitz ?

Quello di Michelangelo è quasi un estremo "appello", sintetizzato magistralmente nella presenza e nel silenzio, vivo e toccante, della sua Pietà, dove la perfezione e l'armonia delle forme sono “superate” solo da ciò che sa far vibrare nelle nostre anime

Del Cristo morto, parrebbe non esserci nulla da aggiungere, rispetto a ciò che di lui sappiamo già: la sua storia, il suo supplizio, la morte, la sua missione in quanto figlio di Dio.

Un sentimento di pietà che appare confortato ed esaltato dalla conoscenza della storia della salvezza, propria del cristianesimo, dove la figura del Cristo svetta nella sua centralità.

Eppure, non è così, forse qualcosa può essere ancora detto.

Michelangelo sembrerebbe aver accolto, nel suo orizzonte artistico, non solo l'universo dei credenti, ma anche l'universalità degli uomini.

Non è presente (nella compiuta bellezza delle forme) solamente il messaggio di salvezza e di redenzione, bensì anche una potente affermazione della dignità e preziosità, che attengono alla "semplice" esistenza, alla vita.

E questo traspare, specialmente, dalla rappresentazione del viso del Cristo.

Un Cristo che accoglie, sino in fondo, il suo destino, fedele alla voce interiore che guida i suoi passi.

Nessun compromesso, nessuno "sconto", per una vita traboccante di senso, sino ai drammatici momenti finali, quando si rende conto che "il calice amaro" non potrà essergli risparmiato, e che la fedeltà alla propria anima passa per la sua morte.

Ma la sua morte violenta, non è "dovuta".

Egli paga con quel sacrificio, la fedeltà alla sua essenza.

Gli ebrei e i romani non hanno deciso di uccidere "a caso" - non erano così stupidi - ma hanno avvertito che da quell'uomo proveniva un "pericolo" per il loro mondo, per le loro credenze, per i loro interessi.

Non si uccide "a freddo":   tutto un sistema di potere, di consuetudini, di assetto sociale, si è sentito minacciato.

Ma non perché il Cristo proponesse un sovvertimento delle istituzioni, ma perché indicava una diversa visione, sollecitava le persone verso un orizzonte nuovo.

E questo era sentito come ancor più pericoloso della rivolta violenta.

Era un seme che avrebbe frantumato le fondamenta dell'assetto presente, le avrebbe private di ogni “nutrimento”, nel mentre restituiva centralità e dignità alla persona e allo spirito.

Il "Siamo tutti figli di Dio", che filtrava dalle sue parole, era un pensiero, una visione che devastava equilibri secolari, fatti di potere, prevaricazioni, violenza, ingiustizia, precetti rigidi e meccanicamente applicati.

La gente semplice avvertiva la sua diversità, la sua onestà e sincerità, e lo seguiva.

Era l'invito ad un "risveglio" potente, al recupero di una visione diversa dell'esistenza e del suo significato, a liberarsi di tutti pesi, di tutte le sovrastrutture che soffocano lo spirito dell'uomo.

Questo non era tollerabile per i potenti dell'epoca.

Cristo non era facilmente inquadrabile nelle categorie che il potere conosceva.

Non tra gli interessati sostenitori, né tra i sottomessi, domati e timorosi, né tra i rivoltosi, né tra gli indifferenti, né tra i cittadini "esemplari".

E il potere non si era neppure fatto convincere da quell'invito di "dare a Cesare quel che è di Cesare", e neppure dalla sua affermazione che il suo regno non era di questo mondo.

E allora si cerca di incastrarlo sull'ortodossia, sulle credenze ritenute "intoccabili", totalizzanti, fino ad ascoltarlo pronunciare quella "bestemmia" che lo condurrà al patibolo.

Una condanna che era, insieme alla perdita violenta della vita, la negazione di ogni spirito critico, di ogni voce diversa e il trionfo del potere brutale delle istituzioni, che negano qualunque visione diversa dalla loro e che, soprattutto, minaccia i loro interessi.

Anche la "politica" viene piegata, adattata a questi ultimi.

Sulla croce viene inchiodato ogni anelito di giustizia, di libertà, di ribellione, ogni idea di prevalenza dello spirito sugli assetti sociali, ogni percezione della scintilla che ci consegna alla sacralità e al rispetto, che ci pone tra le braccia di un Dio amorevole e misericordioso, che ci conduce sulla soglia del mistero di questa fragile e meravigliosa esistenza.

La crocifissione era un supplizio di una crudeltà senza limiti, in cui si assisteva al prolungato e procurato strazio di un condannato.

I romani, cosiddetti “portatori di civiltà”, ne fecero ampissimo uso, anche a scopo di terrore e sottomissione. Del resto, erano specialisti nello spargere sangue.

 

Ma sulla croce non sale un vinto, giacché non può essere spenta quella voce che alberga in ogni essere umano, e il tremore dei soldati, a guardia del condannato agonizzante, è lo stesso di ogni potere, che avverte, nel proprio intimo, la propria essenziale violenza e ingiustizia, la propria ferocia o furbizia.

"Io nego !", potrebbe essere il motto del potere, per il quale non ci sono notti tranquille, né equilibri certi.

Eppure...

Cristo, è ora "aldilà", e lo è per sempre !

Lui strappa il velo dell'ipocrisia della violenza, mostra ciò che fa, o fa fare, il potere.

La sua morte è l'affermazione della sua fedeltà irriducibile alla prevalenza dello spirito, e mostra quanto questo sia inaccettabile per ogni potere.

È l'affermazione della universalità, rispetto alla parzialità, della Terra di tutti gli uomini, e non solo di alcuni.

Il potere fa pagare tale ardire con la morte, il dileggio, la tortura.

Eppure...

Cristo è ridotto al silenzio, ma la partita non è chiusa, ma più aperta che mai.

E il potere ha testimoniato, con il suo agire, ciò che forma la sua autentica essenza. Quello è il suo vero volto.

Cristo ha osato affermare un'altra verità, che non coincide con il potere.

Tuttavia non è solo il potere il "nemico", ma pure l’indifferenza, i modelli, la superficialità, l'ottusità, la "normalità".

Tutti veleni per l'anima.

Ma ora mi preme tornare al Cristo di Michelangelo.

Il volto del Cristo, che nella composizione scultorea, per la sua posizione, è meno fruibile, restituisce la sensazione del "tutto è compiuto".

Il viso è dolce, morbido, sereno, "luminoso", pacificato.

Una compostezza che richiama quella della madre, e che è colma di identico mistero, dell'appartenenza ad "un'altra" dimensione.

Si percepisce come un senso di "sacralità". Una "sacralità" che è, anch'essa, una sorta di "confine", che noi abbiamo, con molta leggerezza, "superato".

È, per assurdo, quasi più facile "uccidere" un uomo, che rispettarlo.

Il nostro sguardo è diventato abile a fissare l'immagine superficiale dell'altro, e di noi stessi, piuttosto che scrutarne l'abissale mistero.

 

Il "messaggio" peculiare che forse Michelangelo ci affida, proprio per la sua essenza, non può veicolarsi colla voce forte di chi pretende di essere nel giusto ed intende imporlo agli altri, ma come un "lacerante", sconcertante silenzio, che può solo suggerire.

È infatti alle radici profonde del nostro essere umani, che il "messaggio" è diretto, e del quale nessuno può essere consapevole al nostro posto.

Ed è un silenzio che solo una pesante indifferenza o una sorda violenza possono far tacere.

 

Michelangelo, a soli 23 anni, si presenta non solo come un insuperato scultore, ma anche come un raffinatissimo ed illuminato saggio.

E ci consegna, e ci affida, un "messaggio", inciso nella pietra, che supera ogni confine di tempo e spazio, e tocca e parla alla universalità degli uomini, quasi un testamento spirituale di ciò che può essere stata la sua percezione dell'essere partecipi della vita, qui, su questa unica Terra.

Michelangelo sembra portarci in uno spazio in cui la violenza dell'uomo sull'uomo, dopo secoli scelleratissimi di dolore e sangue, non appartenga più alla storia umana.

Solo uno sguardo nuovo potrà salvarci.

Solo attingendo ad un’inedita e straordinaria consapevolezza dell'anima umana, potremmo superare la nostra antica stupidità e squallida miseria. 

 

 

DIMENTICATA PIETA’

 

La luce di ciò che splende nell’intimità dell’anima,

tabernacolo della vita.

 

E il silenzio diviene urlo che non s’acquieta,

guardiano del tesoro immacolato..

Urla la ferita dell’anima,

ruggito nella tempesta.

Il petto squarciato,

chi lo custodirà ?

Dove cercheremo

la nostra ineffabile grandezza ?

I macigni pesano solo

sul cuore di chi ha cuore.

 

Caino è ancora a battere sull’incudine

tutte le sue spade,

gli occhi colmi di fetida follia.

Il disprezzo della vita è un’erba maligna

che respira sangue, lacrime e indifferenza.

E colpi, colpi, ancora colpi,

fino a soffocare nell’anima

ogni scintilla di Dio.

Una lama infuocata

ci strazia la lingua e gli occhi,

ci strappa la viva carne,

in un osceno digrignar di denti.

 

E osiamo ancora chiamarci uomini,

noi, profanatori di ogni tempio. 

 

Luciano Galassi   ( Gennaio 2013 )


 ULTERIORI RIFLESSIONI


Una recentissima visita al calco originale della Pietà di Michelangelo, mi ha consegnato delle nuove impressioni.

 

Sono trascorsi soltanto 33 anni e Maria accoglie nel suo grembo il corpo straziato del figlio.

Tutto si è compiuto.

Si percepisce un immenso silenzio.

Maria sembra ora tutt'uno con il figlio, lo ”culla” tra le sue braccia, in una indissolubile unità, ma non è pensabile che quel corpo martoriato sia unicamente ciò che accoglie.

Quel corpo non è separabile da ciò che Cristo ha detto, fatto, pensato, dalla sua anima.

La composizione scultorea che Michelangelo realizza e che si focalizza su Maria e Cristo, isolandoli da tutto il contesto, dagli apostoli e dai discepoli, parrebbe concentrare su Maria un'eredità che la attraversa totalmente.

Quel figlio, che ha nutrito con il suo sangue e il suo respiro, ora "gli ritorna" in una compiutezza che forse non avrebbe potuto prima intuire.

Ora Maria sa, al di là dello strazio, prende piena consapevolezza dell'immagine totale del figlio.

Il mistero di quella vita le si è, almeno in parte, palesato.

E lei è lì, presente, consapevole.

L'iconografia ufficiale ha fatto di Maria la donna del "Sì", dell'accoglienza, della dedizione, dell'umiltà, della sottomissione, ma - secondo una visione che ha mortificato per secoli la donna - quasi incapace di quella presa sulla realtà che il maschio ha riservato a sé.

Quell'immagine “spenta”, che ha finito per apparire "naturale" e scontata, umilia pesantemente la donna, che sembra condannata ad una permanente minorità.

"Non sono cose da donne", pare di udire.

Michelangelo opera un temerario ribaltamento, aperto ad una ritrovata e luminosa dignità.

Maria c'è, e il suo abbraccio è totale, pieno, e raggiunge "spazi" che il maschio, solitamente, riserva a sé.

Si assiste ad una fulminante emancipazione e ad una radicale autonomia.

Maria sa reggere tutto il peso esistenziale che il figlio ha posto in essere.

Non si ritrae in spazi privati, riservati. Spezza ogni necessità di tutela.

Ora non è più la donna sottomessa e timorosa, che deve situarsi all'ombra dell'uomo.

E l'emancipazione a cui Michelangelo la chiama, la pone in una condizione drasticamente in contrasto con gli schemi culturali.

Una Maria siffatta appare chiamata verso altri orizzonti, che brillano di luce propria, oltre ogni immagine a priori.

Ora Maria è un "gigante", che “chiede” per sé altri spazi, che non accetta di vivere all'ombra di nessuno.

Ora è donna di consapevolezza e di parola feconda, protagonista e padrona del proprio destino.

 

Tra  quali braccia poteva essere consegnato il corpo di un figlio morto con così tanta violenza, se non quelle della madre ?

E con quanto strazio e insieme con quanto incontrollabile e struggente desiderio di consolazione, che si proietta al di là della morte fisica !?

Forse si dirà che il corpo non è lo spirito e che Maria non è necessariamente in grado di accogliere (e diffondere) il "messaggio" di salvezza di Cristo, ma questi rischiano di essere solo dei luoghi comuni.

A quel corpo che ritorna alla madre, corrisponde anche la piena accoglienza del figlio: chi più di lei poteva essere interessata e motivata a comprendere ?

Chi, più della madre che Michelangelo ci consegna ?

Ma l'eredità la prenderanno in mano gli uomini, i maschi, anche chi il Cristo non l'aveva neppure conosciuto.

Dalla Maria di Michelangelo traspare una "autorità", una "potenza" che travalicano la pur fragile esistenza umana e ce ne rivelano il volto possibile.

Ora che gli uomini quel figlio l'hanno messo violentemente a tacere, si erge poderosa la sua presenza.

 

Maria sembra dunque l’erede del “tutto è compiuto”, che la investe totalmente, di cui diviene pienamente partecipe.

La vicenda del figlio è la sua vicenda, e il suo “Si” si estende anche a quella.

Si chiude un ciclo, la carne del figlio è la sua carne.

Maria sembra “riportare a sé” quel figlio così particolare, così “diverso”.

Ne diviene viscerale custode.

E’ Maria la forza portante, il pilastro della scultura. E’ lei a reggerne compiutamente l’impatto.

Una scelta precisa di Michelangelo, una scelta di grande portata, anche teologica.

Forse non si poteva osare di più.

Un messaggio profondo, fissato e consegnato alla muta pietra e al futuro.

 

Ma la storia sembra aver preso strade diverse e più “rassicuranti”...

Eppure la visione di Michelangelo è “rivoluzionaria” e si apre su prospettive radicalmente innovative e potenti.

Uno squarcio tra le nuvole, prontamente ricucito …

Forse un’occasione perduta.

 

Luciano Galassi

(19 dicembre 2014)