" SEMO VENUTI PE' L'ALLEGRIA ... "
(Suoni e balli della tradizione marchigiana)
Canto la gente senza memoria
gettata fuori dai libri di storia
canto la voce, le lacrime stanche
di umili genti, dalle mani ormai sante.
L.G.
Qui si dice con amore
che c’è un mondo che non muore
La voce degli ultimi, dei poveri, dei contadini, raramente ha trovato spazio su quel palcoscenico "artificiale" che chiamiamo storia, e che è stato puntualmente amministrato e gestito dalle
classi egemoni, che hanno attribuito a loro stesse il primato della cultura, dell'arte, della " voce ", del potere di fare e disfare, dimenticando o negando la voce e la presenza di chi,
con la fatica, il sudore, la sottomissione, la mancanza di riconoscimenti, e a volte anche con il sangue, quel mondo nutriva.
Di quegli uomini sono rimaste poche tracce (a parte i libri scritti da altri su di loro), come gli oggetti materiali, gli strumenti del lavoro e della quotidianità, ora collocati nei vari musei
del mondo contadino, oppure i canti e le danze che sono giunti sino a noi, e ai quali l’opera di studiosi e appassionati, come Gastone
Pietrucci, specialmente per quanto riguarda le Marche, ha dato testimonianza.
Quella gente non ha avuto la possibilità né gli strumenti per potersi esprimere al pari di un Dante o di un Petrarca, tuttavia credo che la tenerezza, la delicatezza, la sensibilità,
l'amorevolezza, la tenacia e la forza, abbiano fatto parte integrante delle loro esistenze.
Ma lo spazio gestito dai potenti, che erano preoccupati solamente della propria immagine e che troppo spesso " dimenticavano " le violenze, le ingiustizie e i soprusi da loro perpetrati, non
consentiva che la realtà di quegli uomini facesse parte della storia da ricordare.
Luce accecante per loro e ombra per tutti gli altri.
Ai potenti forse piace vedere la realtà dei contadini come “graziosamente” al proprio servizio, credendo con questo di occuparne tutto l’orizzonte esistenziale.
Questo è straordinariamente offensivo, oltre che parziale.
Erano mondi segnati dalla separazione delle esistenze, quasi fossero “generi” diversi. Ma forse quella separazione era “necessaria” per non essere coinvolti, per non incontrare la sostanziale
umanità dell’altro, i suoi occhi, e magari non rivelare l’ingiustizia di un sistema, che donava privilegi e agi solo ad alcuni.
Per questo l’apporto di studiosi e appassionati è un atto di “ dovuta “ e riconoscente " riparazione ", di recupero di una dignità negata, e testimonianza della vita di esseri umani che hanno
certamente contribuito anche loro, come artefici, al cammino dell'uomo.
Anch'io sono figlio di contadini e anche i miei nonni lo erano.
Chi scrive, più che lo sguardo delle studioso, ha quello dell’affettuoso interesse: credo sia lo sguardo migliore.
Alla gente dei campi io sono profondamente grato, anche perché ha costituito il mondo della mia infanzia, un buon mondo, semplice e pieno di vitalità, di generosità e di saggezza, seppure segnato
da fatiche pesanti e, spesso, dalla miseria.
Non intendo certamente farne un'immagine idilliaca (visto che anche quel mondo conteneva una varietà e una diversità di “ paste umane “), ma la sintesi e il senso ai quali sento di essere ora
pervenuto, sono il mio atto di celebrazione del mondo contadino, ingiustamente posto ai margini dell'esistenza comune.
E’ “ l’altare “ di una sacra memoria, davanti al quale possiamo ancora accendere il lumicino della nostra riconoscenza, rivendicando per noi, quali figli ed eredi, quella possibilità di
espressione a loro storicamente negata.
Un grido del dolore, della dignità e della memoria, che finalmente raggiunga, anche per loro, il cielo, a sciogliere, magari nelle lacrime, un nodo di ingiustizia e di colpevole
dimenticanza.
Le cose che ho scritto a me sono servite per riuscire a mettere a fuoco i sentimenti di riconoscenza per un mondo che era il mio, e che all’epoca percepivo come un autentico protagonista.
Sapevo certamente del padrone (e dei padroni …) del terreno, nel quale mio nonno era mezzadro, ma il padrone era sempre sullo sfondo, salvo in certi momenti, come il pranzo della trebbiatura, che
diventavano “rituali”.
Quegli uomini erano per me una comunità viva (e io non mi rendevo conto dei “meccanismi” che regolavano la mezzadria), con una propria anima e dignità, tali che oggi non hanno l’eguale.
I riti della nostra tradizione contadina, li sentiamo comunemente definire “Canti rituali di questua”.
Per la mia sensibilità, non credo proprio che quegli uomini semplici abbiamo mai dato di se stessi una simile definizione, semmai degli studiosi, più eruditi.
A me quella definizione è sempre andata stretta e, sinceramente, la “stonatura” la sentivo nella parola “questua”, che cattura tutta l’attenzione.
Proprio perché sono specialmente i bambini che, al di là delle definizioni e della mediazione dei grandi, sono in grado di afferrare pienamente il senso, l’atmosfera delle situazioni, voglio
rifarmi alle mie impressioni del passato.
Ricordo vagamente l’arrivo dei cantori a casa di mio nonno, in campagna, per la Pasquella. Con i cantori entrava in casa un’atmosfera di avvolgente calore. Tutti erano coinvolti, dai bambini agli
anziani, in un silenzio carico di magia (quando “tutto” stava per accadere), che si scioglieva nel canto. Era un’occasione straordinaria e credo che quel rito svolgesse una funzione di “legante”
per la comunità. Era un gesto semplice, sincero e profondo, in cui le persone ritrovavano il terreno comune del loro essere persone, nel rispetto, nella convivenza, nel sostegno reciproco.
E se alla fine ai cantori venivano dati dei doni, proporzionati alle disponibilità di ciascuno, erano anche il segno del riconoscimento dell’essersi fatti carico di continuare una tradizione
preziosa, per la quale avevano messo la propria faccia. Così io credo che il termine più appropriato potrebbe essere “Canti rituali di
augurio”. Augurio di prosperità, di salute, di serenità, di armonia. E magari anche “Canti rituali di augurio e di
allegria”, visto che finivano sempre con il saltarello.
In tutti, restava la gioia, la gratitudine e la commozione, semplice, calda.
Quel mondo, purtroppo, non c’è più e gli odierni “contadini” la terra non la toccano neppure, chiusi come sono nei loro trattori, con lo stereo e l’aria condizionata.
I contadini di una volta sapevano “dialogare” con la terra, le piante e gli animali.
Mia madre (che fu contadina) mi ha raccontato che tanti anni fa, durante la mietitura a casa di un vicino, vide l’anziano contadino che piangeva lungo il campo.
Gli chiese perché e lui le rispose (era l’epoca della “mieti-e-lega”) che piangeva per tutte le spighe di grano che, con quella macchina, andavano perdute !
Si potrebbe parlare di “tirchieria”, oppure di “devozione”, di rispetto …
Sul campo i contadini c’erano tutti i giorni, era la loro casa, e ne conoscevano e custodivano ogni segreto, e non solo in termini di pura utilità, ma anche di cura e rispetto.
Quella gente, spontaneamente, creava occasioni di svago, di ballo, di festa e di canto, e quei canti sono una delle loro poche testimonianze, ma riescono a tradurre e tramandare aspetti e
spirito della loro esistenza.
A me è restato addosso soprattutto l’allegria e la semplicità dei canti, dell’organetto e della fisarmonica.
Quel mondo non c’è più, dicevo, e con lui sono venute meno le sue immediate espressioni, quindi anche i canti, che sono orami solo ricordi …
Io credo che l’aver perso tali riti (tranne alcune eccezioni e le varie Rassegne) ci abbia reso tutti più poveri. Oggi è la televisione ad avere la pretesa di tenere insieme la collettività, ma
lo fa spesso con gli elementi più terribili delle violenze di ogni tipo e, soprattutto, in maniera artificiale, fredda e lontana.
Oggi sentiamo tutti che manca qualcosa di profondo, come la semplicità e la sincerità di essere accanto …
Si è seguitato a mantenere vivi le musiche e i canti, le danze, come se, da soli, rappresentassero il mondo contadino.
Forse la ragione è che tutto ciò è più facile da recuperare e conservare.
Ma la riproposizione non può essere fine a se stessa,, un “come eravamo” della memoria, come folclore, come “archeologia”. Manca qualcosa.
Serve recuperare il passato perché illumini il nostro presente, conferendogli senso e profondità.
Ma se quelle musiche nascevano da quel mondo, siamo proprio sicuri che è solo di quelle che sentiamo viva nostalgia ?
O c’è qualcosa di più ?
Abbiamo certamente l’impressione che manchi qualcosa, tuttavia tale mancanza non può riguardare solamente una forma e una organizzazione di vita che non esistono più.
Mi sono chiesto allora quale “lezione” possono darci quei canti .
I contadini avevano dalla loro una certa ”stabilità” di forma, che si perdeva nel tempo, noi, invece, siamo frammentati, spaesati, in un mondo globalizzato (così si dice), senza più una identità
riconoscibile, senza una “comunità” nella quale ritrovarci e che ci sostenga.
Questo mutamento ha prodotto un inaridimento e una “fuga” in confini personali (che il “sistema” consumistico cerca di sfruttare avidamente), di cui non siamo contenti.
A noi, che siamo in una fase nuova, forse di passaggio, spetta di fare un “salto evolutivo”, ma non all’esterno ( o non solo), bensì scendendo sempre più dentro di noi.
Lì ci aspettano delle radici “nuove”, eppure antichissime.
“L’identità” alla quale ci è chiesto oggi di appartenere è quella degli uomini come genere, senza più distinzioni e separazioni, al di là delle diversità e delle distanze.
Dobbiamo imparare a sentici parte della umanità che lotta, spera, soffre, gioisce, che nasce e che muore.
E’ l’occasione per approfondire e far vivere quei sentimenti, quelle visioni, quelle voci che ci rendono “prossimi” di tutti gli altri uomini, in un unico respiro.
Così ogni “esplorazione” della nostra umanità, del nostro piccolo “specchio”, è un allargamento e una precisazione di quella “mappa” che ci affratella e che ci fa riconoscere come “umani”.
E’ “l’uomo planetario”, di cui parlava p. Ernesto Balducci.
La storia non si arresta e ci spinge inesorabilmente verso questa “nuova” identità universale, verso un nuovo equilibrio dell’esistenza.
E credo sia solo in questo la nostra speranza e la nostra gioia.
Ognuno faccia la sua parte per edificare questa nuova visione …
Ciò che resta della memoria dei contadini è un ponte di speranza verso una autenticità nuova, nostra, di tutti, in pace e in armonia.
Questa pagina ha preso l’avvio dalle parole di una canzone popolare, la Pasquella (della vallesina):
“Semo venuti pe l'allegria / Se non volete annamo via”, recita una strofa.
A me piace modificarla così:
Semo venuti pe’ l’allegria / Restamo ancora, non annamo via.
E potevamo non amare la terra che porta la vita ?
E gli alberi, le colline, gli animali.
Potevamo non guardare con speranza l’alba sui campi ?
La dignità del sudore, della fatica sulle spalle, i primi passi dei figli, la tristezza dolce degli anziani, il grano dorato che è pane.
Luciano Galassi
PADRE
Stringeva al petto l’organetto,
in muto silenzio,
proprio vicino al cuore.
In tenera eredità di sentimenti,
in composto rispetto,
in sincera accoglienza.
Luciano Galassi
Omaggio a Gianni Donnini [all'organetto]