" SOTTO LA CROCE MMARIA … "
Antico canto religioso umbro (ricostruito da Pierluigi Felici, di Spoleto) che rappresenta Maria come da secoli l’ha vista e cantata il popolo, come una tenera, spaesata, angosciata madre terrena.
Sotto la croce Mmaria
che fare più non sapea
la jente che stea llì
guardava Ggisù e piagnea
Non esse triste perché
su ‘n cielo vago contento
ma io chì ssola starò
me tocca morì llo sento
Lo sangue intanto cha da’
llo legno gné po’ scolava
Maria ‘ccucciata a goccia
a goccia je lo baciava
Lo sole non s’alzò più
la luce se ne sparette
la jente se ‘mpaurì
e via se ne fujette
Ggisù ‘l suo volto piegò
e poi je ‘ntrò in agonia
sotto la croce restò
piagnente Madre Mmaria
Ho conosciuto questo antico canto attraverso l’interpretazione di Gastone Pietrucci.
E' estremamente difficile aggiungere qualcosa a questo canto che considero un capolavoro, proverò, tuttavia, ad esprimere solamente il mio vissuto emotivo.
Quello della croce rappresenta sicuramente un archetipo della condizione umana, forse della "tragicità" del suo stato, oscillante tra la vita e la morte, tra il buio e la luce, tra la “salvezza” e la “perdizione”.
Ma è una tragicità nella quale si incarna anche la nostra grandezza, proprio nell’istante della totale accoglienza di ciò che la Vita (i cui disegni ci appaiono, a volte, imperscrutabili), nel suo indubitabile amore, ha disposto per noi.
Anche perché occorrerebbe domandarsi se e che cosa la Vita sia disposta a donarci (e se magari non sia aperta alla compassione per una sua creatura) proprio nell’istante in cui ci chiede il sacrificio più grande, quello della nostra vita.
Mi domando perché questo canto, queste parole, mi tocchino in maniera così intensa e coinvolgente, considerando, oltretutto, che siamo di fronte ad un tema da cui si sarebbe tentati di fuggire, anziché soffermarsi.
Considero questo canto e le sue parole, qualcosa che va a sollecitare, a grande profondità, le mie radici di essere umano, praticamente come se quelle immagini bruciassero nella mia carne, dunque mi riguardassero personalmente. Al di là di qualsiasi intenzione cosciente. Accade.
La sorte che tocca il Cristo, oramai appeso alla croce e agonizzante, diviene anche la sorte di sua madre, le rimbalza addosso, “trafiggendola”.
Così “la scena” sembra dividersi tra il figlio e la madre, quasi “rubando” al figlio quella centralità che la storia e la tradizione gli hanno di solito attribuito.
Se il Cristo è lacerato sulla croce, la sua condizione si riverbera nell’anima e nel corpo di Maria, con una intensità indescrivibile.
Ad entrambi non resta che bere, sino all’ultima goccia, il calice amaro, che li lega in maniera indissolubile.
Sotto la croce Mmaria
che fare più non sapea
la jente che stea llì
guardava Ggisù e piagnea
Maria è sotto la croce, ma la sua anima è parimenti inchiodata al destino del figlio. Non sa più che fare.
Il suo affetto di madre, di fronte a tanto strazio, sembra completamente soffocato, svuotato.
La gente partecipa all’evento con le lacrime, segno certo del loro sincero coinvolgimento.
Non esse triste perché
su ‘n cielo vago contento
ma io chì ssola starò
me tocca morì llo sento
Mentre Gesù cerca di rincuorare la madre, “dicendole” che oramai lui ha accolto sino in fondo il suo destino e “guarda” al cielo che lo aspetta, Maria sente che, nella tragica solitudine che la attende, le toccherà, a sua volta, di morire.
Lo sangue intanto cha da’
llo legno gné po’ scolava
Maria ‘ccucciata a goccia
a goccia je lo baciava
Ma la parte che, per me, tocca il vertice di questo magico canto, è quando Maria ( di fronte al sangue del figlio, che ogni tanto goccia dal legno della croce, alla cui base lei è accucciata ) raccogliendo per intero tutto il suo affetto di madre ( che pure si trova a fare i conti con quella cruda tragedia ) in un gesto che può essere solamente segno di una amorevolezza senza confini, bacia quel sangue, goccia a goccia. Goccia a goccia …
Altro non le è più concesso, ma è così che riesce ad esprimersi il suo cuore di madre, così riesce ancora ad aver corpo il suo amore, toccandoci sino alle lacrime.
Quei baci, quale trionfante segno d’amore (ricordiamo che in certe culture, il cibo, masticato dalla madre, viene passato al bambino, da bocca a bocca, come del resto avviene nel regno animale) si rivolgono al sangue di Gesù, a quell’emblema della vita e dell’anima che sta scolando via.
Siamo di fronte ad un profondissimo segno d’amore e ad un ideale gesto di consolazione, riparazione e “sacralizzazione”.
La pena e l’amore raggiungono il culmine.
Sono entrambi, Maria e Gesù, pienamente “consumati”.
Niente viene o può essere trattenuto.
I gesti di facile brutalità scivolano tristemente verso il “basso”, quelli che incarnano e veicolano l’amore e il rispetto, svettano diritti verso l’infinito e nutrono meravigliosamente il nostro spirito.
Chissà perché, gli autentici momenti preziosi della vita, avvengono nel silenzio, nel raccoglimento, senza “effetti speciali”.
Lo sole non s’alzò più
la luce se ne sparette
la jente se ‘mpaurì
e via se ne fujette
Tutto l’universo sembra partecipare al doloroso evento.
Così il sole sembra impossibilitato a sorgere (o a scaldare, secondo un’altra versione) e la luce scompare.
Le tenebre dello smarrimento prendono il sopravvento, tanto che la gente non riesce a reggere gli avvenimenti e scappa impaurita.
Ggisù ‘l suo volto piegò
e poi je ‘ntrò in agonia
sotto la croce restò
piagnente Madre Mmaria
Un altro passaggio forte del canto, è il momento in cui, chinato il volto, Gesù entra in agonia.
Credo sia un momento, quello dell’agonia, che è quasi impossibile descrivere, e la mia impressione è che l’agonizzante entri in uno spazio di sacralità e di solitudine assolute, uno spazio di sospensione, dove il “giusto” attende che lo spirito finalmente si liberi (e lo liberi), per divenire parte dell’amorevolezza assoluta, nella luce di Dio.
Forse, oramai abbandonati i legami terreni, quei momenti possono quasi apparire un ritorno alla solitudine di un “utero”, fecondo di vita.
Per quanta pena ci possa, comunque, essere toccata, quello è il momento del passaggio inevitabile, in cui, forse, tutto potrà essere “sciolto”, lenito.
Tutto va compiendosi inesorabilmente.
La morte di Gesù è imminente.
Sotto la croce resta piangente Madre Maria, oramai una scorza svuotata dall’implacabile dolore.
Il canto finisce qui.
Oramai le parole sono prosciugate dal prolungato strazio.
A ben vedere, siamo stati anche noi, ancora una volta e chissà per quante, ai piedi di quella croce, siamo anche noi partecipi accorati di un evento che non può esserci estraneo, in quanto paradigma di una condizione universale, che abbiamo avuto il cuore e la dolcezza di accogliere.
Dovremmo, infine interrogarci come mai il dolore, forse perché sbaraglia tutte le difese, sembra scavarci e scovarci, e raggiungere gli angoli più riposti della nostra anima, portandovi luce e saggezza.
Non saprei dire se la gioia sia altrettanto capace.
Allo strazio, al dolore, alla disperazione, allo smarrimento, il lamento sembra affiancare una straordinaria dignità, quasi una sorta di riscatto da tutto, anche dai pesi della crudeltà.
E nell'istante, acuminato, in cui il dolore raggiunge il suo acme, si assiste ad una "trasfigurazione", che la mente dei carnefici, nel loro logoro e prevedibile disegno di potere e oppressione,
non può minimamente concepire.
Nella totale accettazione dello strazio inevitabile, si apre una inimmaginabile "via di fuga", che, paradossalmente, conduce all'aprirsi di un orizzonte di totale liberazione.
Ecco perché "le tenebre non prevarranno".
È come essere passati attraverso una fiamma purificatrice, una viva esplosione di luce.
E la vita appare come è: pura, intoccabile, sacra.
Questo lo sentiamo misteriosamente nella nostra carne, sappiamo che è così, senza dubbio alcuno.
Ma quell'orribile strazio, lungi dall'essere una via paradigmatica, ci consegna la più limpida delle verità: la vita è scintilla limpida di Dio, sacra, non ciò che tutti i giochi di potere,
i luoghi comuni, le banalità, l'hanno costretta, forzata a diventare.
Povera carne dolorante, ma specchio di Dio.
Del resto, a cosa mirava il supplizio: solamente al corpo del Cristo?
No. Era rivolto alla sua anima, al suo spirito.
Era lo scontro tra due visioni del tutto inconciliabili, tra chi concepiva l'esistenza come privilegio, potere e dominio, con il corollario inevitabile di lotta, violenza, conquista,
sopraffazione, e chi poneva al centro la sacralità, la dignità, la libertà, il rispetto, il volto divino dell'uomo.
Il Cristo era una spina sul fianco che rischiava di far crollare quel mondo, che aveva messo da parte, aveva soffocato, per se e per gli altri, il richiamo dell'anima.
Una consapevolezza, aperta per tutti, per la comunità universale, che non ha forse ancora trovato pieno compimento, ma che è lì, davanti ai nostri occhi e nel tabernacolo più segreto della nostra
anima.
A noi resta il dono di questo canto sublime…
Ringraziamento
La straordinaria carica espressiva di Gastone Pietrucci ci restituisce un canto pervaso di toccante sacralità.
La sua voce rimanda al valore e alla dignità del dolore umano, riverberando l’eco delle ancestrali lamentazioni che appartenevano al popolo.
Luciano Galassi
Notizia
Interpreti del brano: “La Macina”, (Gastone Pietrucci, voce), la “Gang” (Sandro Severini, chitarra elettrica) e con Giovanna Marini (voce).
Tratto dal CD “Aedo malinconico ed ardente, fuoco ed acque di canto” – vol. 1 - Suonimusic distribuzione –
Figlio senza parole,
hai camminato tra noi
e hai detto parole forestiere
ai nostri occhi ciechi.
Il dono per te
è stata la tua pace
inchiodata a un legno,
dove ti ha lasciato
la nostra memoria,
in attesa, forse,
di accogliere,
finalmente,
dentro di noi
il tuo spirito.
L.G.
( 18.2.2012 )